Sergio Vaccargiu Non ero fra coloro che a fine allenamento si fermavano per l’abituale sagra dei tiri in porta. Non avevo granché voglia nelle gelide serate invernali di stare ancora sul campo. Correvo negli spogliatoi a farmi una rilassante doccia calda. Giocavo in difesa, quindi ero poco avvezzo ad inquadrare la porta avversaria, pensavo di più a spazzare la mia area di rigore sventagliando qualche pallone in tribuna. Per questo non occorre fare un allenamento specifico.
I miei compagni di squadra, i portieri e gli attaccanti, invece s’attardavano per quello che era un rituale, una sfida, un duello. Unico premio lo sfottò. Erano questi gli ingredienti che spingevano a quello straordinario.
L’attaccante che sfida il portiere. Il portiere che irride il compagno quando il pallone sorvola alto la traversa e bisogna andarlo a recuperare fuori dal recinto di gioco. Al buio, magari chiedendo l’aiuto dello stesso compagno che ancora scherzava sul tiraccio da rugbista.
Quel rituale, quei gesti, chissà quante volte gli avranno fatti anche loro, Riccardo Neri e Alessio Ferramosca. Non sapremo mai con certezza quello che è accaduto a Riccardo e Alessio quando sono entrati nel vascone. Il prologo lo possiamo immaginare, perché molti di noi si sono comportati e si comportano come loro. Tanti rigori, tante punizioni a fine allenamento. Facoltativi, senza un allenatore che ti rimprovera per aver svirgolata la palla. Ma con il giudice più severo che possa esistere. Noi stessi. Un surplus di sudore che nessuno aveva richiesto.
I tuoi coetanei bighellonano in piazza. Un giro in motorino, i primi tiri di sigaretta e magari s’imbocca la strada sbagliata. Perché è meno faticosa la vita in strada. Meno regole, nessun sergente di ferro che ti urla di correre più veloce dopo 2 ore che corri. Ma quella palla ti droga, ti ammalia, t’ipnotizza. Diventa un feticcio che t’accompagna dall’infanzia, all’adolescenza, alla maturità. Riccardo e Alessio facevano quello che tutti noi abbiamo fatto o facciamo. Solo che, essendo più bravi e più fortunati, lo facevano con la maglia della Juve. Poi la tragedia. Immane, improvvisa, ineluttabile.
Tentavano di recuperare un pallone, in un centro sportivo dove forse ce ne sono tremila di palloni. Ma quella palla ha un significato più intrinseco. Era la vita di quei ragazzi. Andava recuperata, perché un giocatore e un uomo non lasciano che la palla si perda e con essa si smarriscano quei valori morali, etici e di lealtà che quel totem rappresenta.
Hanno cercato di recuperarla, dandosi una mano in un nobile gesto di solidarietà. Valori che si acquisiscono sudando, imprecando, rincorrendo una palla. I coetanei, belle statuine delle piazze, nel loro fare indolente e tedioso l’avrebbero lasciata lì.
Riccardo e Alessio no..