Una tragica fatalità in una polverosa strada polacca venti anni fà ci tolse quello che incarna in maniera più esemplare la classe e lo stile Juventus, il calciatore che coniugava l’eleganza delle sue giocate con l’umiltà dell’uomo mai protagonista.
Gaetano Scirea non avrebbe avuto difficoltà a giocare in questo calcio muscolare ed atletico, i cui riflettori restano sempre accesi e ti seguono anche fuori dal campo, non avrebbe permesso l’invasione della sua intimità sempre gelosamente salvaguardata.
Resta negli occhi di chi ha vissuto, gioito, pianto, urlato e stromabazzato per la strade dopo le vittorie mondiali del 1982 e del 2006 la semplice compostezza dei ragazzi del ’82 con l’immensa e emozionante gioia di tutta una nazione.
Fù una vittoria sentita dal Paese in maniera più intensa ed intima. Quei ragazzi eravamo noi, figli di contadini, di operai, di artigiani, di impiagati che non avevano perso la semplicità e l’umiltà delle loro origini le cui fidanzate e mogli erano le compagne di scuola o l’amica di sempre.
Stridente la differenza con i festeggiamenti del 2006, con giocatori seminudi che sfilano per Roma ostentando muscoli, tatuaggi, cravatte come fascia tergisudore, in un esibizione del proprio ego molto kitch a uso e consumo delle telecamere ma così lontani da noi.
Ci manca anche per questo Scirea, il suo calcio semplice e concreto, la sua lealtà (mai espulso, mai squalificato) il suo composto modo di eclissarsi al termine delle partite per ritornare al ruolo più difficile ma più gratificante di padre e marito.